Nato a Piacenza nel 1767, Melchiorre Gioia, partecipa al concorso bandito dalla Amministrazione generale della Lombardia nel 1798, avente per tema quale poteva essere il metodo di governo più adatto all’Italia di quel tempo. Melchiorre Gioia è considerato uno tra i più importanti precursori tra i letterati italiani. Della sua vita e delle sue opere non è questa la sede per parlarne, dacchè chi si volesse dedicare a tali interessi il consiglio più utile è quello di proporre una adeguata ricerca internettiana.
Quello che più ci preme è la disamina di questa “dissertazione”, non solo per il premio ricevuto da la nuova istituzione repubblicana cisalpina, nata sulle istanze della non ancora finita rivoluzione francese, ma da noi giudicata fondamentale per le tematiche che ci stanno a cuore. Giuseppe Mazzini è sempre ricordato, giovinetto, tenuto per mano dalla madre Maria Drago, negli angiporti genovesi, incuriosito e impietosito dalla raccolta di denaro fatta dagli esuli reduci della rivolta del 1811 in Piemonte; ma quasi mai l’aneddotica sul maestro del repubblicanesimo mondiale ricorda che una delle prime letture aggiuntive ai testi scolastici è stata proprio “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia”.
Riteniamo fondamentale che chi legge queste note tenga in buon conto l’epoca in cui fu scritta per dare a questo volumetto il giusto valore. Ai giorni nostri l’opinione pubblica italiana ritiene che molta acqua sia passata sotto i ponti e che le problematiche odierne, quali la salute, il lavoro, l’ambiente, per citare i più importanti, prevalgano sulle questioni risalenti ad oltre duecento anni or sono.
Noi, che abbiamo persino più volte letto con attenzione questo volumetto, possiamo assicurare che le argomentazioni di Melchiorre Gioia sono di una attualità profonda, e le relative analisi e proposte risolutive sarebbe bene che la classe politica italiana del momento le conoscesse e valutasse. Nonostante la Carta Costituzionale del 1948, sulla quale è basata totalmente la democrazia italiana, il Risorgimento con le sue guerre di indipendenza e la monarchia sabauda con molti pregi ed altrettanti difetti, oggi si discute con toni accesi sulle riforme da attuare, di federalismo, di “cesarismo”, di conservatorismo e di revisionismo, con il clero italiano diviso tra coloro che rimpiangono il Papa Re e coloro che giudicano estremamente in positivo la fine del potere temporale del vescovo di Roma. Insomma dieci anni dopo l’anno duemila il “gran problema” pende ancora indeciso se non ineseguito. Saranno ora i fatti all’Italia più benigni? I toni da accesi sempre più diventano liti. L’unità e la democrazia sono gli auspici di ogni buon italiano. Melchiorre Gioia giudicava essere allora solo due le forme più idonee a raggiungere la felicità dell’Italia: l’unità italiana soprattutto, e le forme o quella repubblicana o quella monarchica costituzionale. Una confederazione di più stati, con forme di governo diverse poi, è troppo debole per contrastare le strategie straniere; quella dei sovrani, poi, non è forte che contro i propri sudditi.
Scrive Melchiorre Gioia: “ L’individuo non ha il diritto di decidere la questione che per se, il solo consesso nazionale il potrebbe per tutti. Quando potrà l’Italia esprimere liberamente i suoi voti e darsi quella forma di governo che più le conviene? Quando veramente gli italiani il vorranno. Intanto gli scritti dei buoni possono contribuire ad eccitare codesta volontà, ed a preparare la gran decisione che forse non è lontana…”.
Una tra le tante altre cose che impreziosiscono la biografia del personaggio è che questi, antesignano sostenitore di una repubblica italiana libera, ratta da istituzioni democratiche e soprattutto indivisibile per i suoi vincoli geografici, linguistici, storici e culturali, non sia un cittadino qualsiasi, ma un sacerdote convinto, costretto a rinunciare all’abito talare per le sue idee giacobine e l’ammirazione napoleonica, che gli costerà pure il carcere duro.
Risale al 1997 l’ultima edizione del volumetto che suscita il nostro interesse, edito dal Centro Editoriale Toscano, con la dotta introduzione del professor Salvo Mastellone. Altre edizioni più datate, tra le quali una risalente all’immediato dopo guerra si possono agevolmente trovare presso una qualsivoglia biblioteca pubblica comunale ben fornita e professionalmente adeguato allo scopo.
Di economia, di giustizia sociale, di ambiente, dell’impegno in politica, di sanità, di popolo e di mestieri, tratta Melchiorre Gioia, in modo tale da costituire una vera e propria piattaforma culturale agli approfondimenti necessari a chi vuole discettare di storia e di progresso, di fratellanza, democrazia, uguaglianza e libertà, per un moderno avvenire dell’umanità intera.
Significativo è l’inizio costituito dal primo capoverso del volumetto: “ Il Governo, confidato ai saggi eletti dal popolo, ossia la Repubblica, è l’unica forma del governo in cui fiorisca la libertà; dunque, dimandarsi quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia, cioè a dire ad una grande estensione di terreno sparsa di molte città, coperta di vari popoli, egli è lo stesso che dimandare se debbasi dividere in tante repubbliche isolate e indipendenti, come nell’Italia antica, ovvero in repubbliche confederate, come nell’America, o fissarvi una sola repubblica indivisibile, come al momento in Francia.
Da questa osservazione iniziano una serie di considerazioni che il Gioia approfondisce con un’analisi dettagliata nei minimi particolari, favorendo la forma repubblicana tra le tante forme di Stato, con una impressionante serie di concetti, ancor oggi utili decisamente, nel dibattito istituzionale italiano in primo luogo ed europeo in prospettiva.
Nel tracciare i nostri sentieri repubblicani non possiamo permetterci lo spazio ed il tempo necessario a recensire, come sarebbe utile fare, questa fondamentale opera per il repubblicanesimo italiano. Nell’invitare, chi avesse voglia di farlo, a recarsi in una biblioteca a reperire il volume, chiudiamo citando una delle frasi fondanti di tutto il volumetto:
“ …… mi basta d’avere provato in generale la necessità di separare il corpo legislativo dal potere esecutivo, di unire il corpo legislativo in una sola camera, e finalmente di fissare i limiti della durata dei vari poteri”
Il no alla monarchia
… se, alla luce di questi principi, esaminiamo la monarchia, e in generale, qualunque dignità ereditaria,decideremo ch’ella è ingiusta, perché viola l’eguaglianza naturale; ch’ella è assurda, perché suppone l’eredità dei talenti necessari ad eseguirne i doveri; ch’ella è dannosa, perché somministra i mezzi di sacrificare la pubblica libertà all’ambizione, all’interesse di uno solo. Tale è, difatti, la natura dell’uomo che tende continuamente ad estendere il suo potere, e sforza gli esseri che lo circondano a travagliare alla di lui felicità. Un monarca, dunque, deve farsi unico centro ed a se solo riferire tutti i moti che eccita nello satto, e servirsi del potere confidatogli pere soddisfare le proprie passioni. Egli deve riguardare i suoi sudditi come artefici del suo lusso, strumenti della sua grandezza, vittime dei suoi capricci e della sua ambizione.
Io non veggo, nel cuore dei monarchi, nessuna forza che possa arrestare l’esercizio d’uno potere che loro offre dei piaceri numerosi e indefiniti, ed equilibrare l’inclinazione che li spinge ad agire, in senso privato, esclusivamente.
Un’educazione depravata loro lascia ignorare che sono uomini; l’inesperienza del dolore li rende alla pubblica miseria; l’ignoranza del male loro impedisce d’arrossirne; la sicurezza dell’impunità agguerrisce la loro coscienza contro la vergogna ed i rimorsi. Essi non si veggono d’intorno che l’immagine dell’abbondanza e del lusso che copre al loro sguardo i cenci del povero; non sentono che la voce perfida dell’adulazione, che dice loro, ad ogni momento: “ Voi siete divinità”. Tutti gli oggetti che li circondano loro danno delle lezioni di fasto, d’orgoglio e di ambizione. Consultate la storia delle monarchie, ossia gli annali del vizio e vedrete i monarchi bevere a sorsi nella tazza della voluttà, addormentarsi in seno alla mollezza, e non risvegliarsi, che per correre in traccia di nuovi piaceri. Voi li vedrete affidare le redini del governo ad uomini che sono il disonore della specie umana, ma che si presume avere tutte le virtù, perché hanno il vantaggio di essere vicino alle loro persone, uomini che di buon grado si fanno loro schiavi per essere i tiranni del popolo, che comandano con tanto maggior orgoglio, quanto più servilmente obbediscono; che, armati di un potere precario, avidi di goderne, ed incerti sulla durata, ne sforzano tutte le molle, insensibili alla pubblica miseria, se cangiasi in loro privato vantaggio. Voi vedrete la perfidia, l’ambizione l’interesse e l’ignoranza assidersi ne’ consigli dei monarchi, ed escluse, la saggezza e la virtù. La spada della loro giustizia, invece di scorre indistintamente sopra tutte le teste, ed abbattere quanto si solleva fuori del piano orizzontale nel quale si muove, s’abbassa per colpire la plebe, e s’innalza, per non turbare ne’ i suoi diritti la nobiltà. Delle bestie feroci, con la maschera d’uomo, appiattate sotto del loro trono, divorano tranquillamente le spoglie della nazione, che, cinta da una soldatesca insolente, costretta a dissimulare e a tacer, storna i suoi sguardi e vela le sue lagrime. Se, per l’eccesso de’ mali, si sollevarono alcune volte i popoli, in massa, e, dopo aver tinti i loro pugnali nel sangue dei monarchi, ne dispersero le membra sull’estensione dello stato, questa giustizia santa loro non fu salutare, se non quando spezzarono il trono, lo scettro e la corona…….
Le persone soverchiamente ricche….. i principi stabiliti nel precedente paragrafo m’autorizzano a rilevare nel codice francese un’altra omissione, e si è che la soverchia quantità di ricchezze debb’essere un titolo esclusivo della legislatura. I favoriti dalla fortuna non sono quelli che hanno l’intelletto più illuminato e il cuore più generoso. I bisogni fattizi offuscano la ragione e disseccano la sensibilità, unica fonte delle sociali virtù. Ora, i bisogni fattizi, s’aumentano, in ragione de’ mezzi di soddisfarli. Altronde le persone soverchiamente ricche avvezze a comandare, con impero, ad una folta turba di servi, avvezze a vedere eseguiti in un momento i minimi loro
cenni, devono avere nell’animo quell’orgoglio che ricusa sottoporsi al giogo della legge ed abborre i principi dell’eguaglianza.
Se l’esperienza ci dimostra che tutti i vizi della corruzione seguono le grandi ricchezze, massimamente, quando acquistate senza industria, si conservano senza travaglio, la stessa esperienza prova che la compassione, la tenerezza, la beneficenza, fioriscono nelle classi laboriose della società, in mezzo alle indigenze, continuamente rinascenti, ed amano, per sostenersi, d’essere talvolta innaffiate dalle lagrime. Scorrete la storia delle scienze e delle virtù, e vedrete i grand’uomini che brillarono nelle une e nelle altre, sortire dal seno della povertà o rinunciare spontaneamente alle ricchezze, sia per liberarsi dell’imbarazzo che cagionano, sia per soddisfare al bisogno pressante di fare del bene. La stessa esperienza ci dimostra che, se l’uomo di fortuna mediocre conserva quella nobile fierezza che ci fa fremere alla vista della schiavitù, l’uomo soverchiamente ricco non ha una fibra che risuoni all’indipendenza, e in lui, l’orgoglio si unisce alla viltà. Se giriamo lo sguardo intorno di noi vedremo l’aristocrazia alzare il capo nefando in mezzo alle grandi ricchezze, mentre la democrazia è sparsa tra le persone che non hanno che delle monete di ferro. Se consultiamo la storia, ella ci dirà che la rivoluzione francese non trovò alcun ostacolo nella piccola nobiltà e nel basso clero, ma ne’ nobili milionari e ne’ vescovi doviziosi rinvenne dei nemici, che le contrastarono il terreno palmo a palmo e le fecero pagare cara la vittoria. Le ricchezze dell’Asia minore generarono la schiavitù della Grecia e Roma precipitò dal colmo di sua grandezza quando ebbe ai suoi ordini i tesori dell’Oriente.
I Sueoni, dice Tacito, le ricchezze le onorano; perciò si sono sottomessi ad un monarca assoluto. Le province più ricche dei Paesi Bassi furono ricondotte sotto il giogo spagnolo, mentre le più
povere, quelle che erano quasi sommerse dai flutti, riuscirono, con degli sforzi più che umani, a staccarsi dalla Spagna ed assicurarsi l’indipendenza. Ho dunque ragione di credere che, dalla legislatura, siano escluse pe persone soverchiamente ricche, così si sfuggirà il pericolo d’avere per legislatori degli uomini ignoranti, corrotti, aristocratici, potenti, e così eccitare e nudrire delle fazioni, così si dimostrerà al popolo che le soverchie ricchezze sono una specie di delitto contro l’umanità e l’uguaglianza e che quelli che le posseggono , essendo sospetti d’insensibilità, non meritano che loro siano confidati gli affari della nazione…..
Melchiorre Gioia: “Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità degli italiani ( 1797)