Intervento di Renato Traquandi, durante le celebrazioni del CL Anniversario dell’Unità d’Italia, nel corso del 2011, nelle diverse città italiane dove è stato invitato a partecipare a diversi convegni.
CL Anniversario dell’Unità d’Italia ( 1861 – 2011)
Il contributo dei futuri italiani all’Unità della Patria
L’Italia dell’Ottocento era politicamente suddivisa in una manciata di Stati, tutti rivenienti dalla restaurazione operata dalle potenze europee vincitrici della Francia napoleonica; la Sicilia, la Campania, le Puglie… il meridione tutto, insomma, era tornato sotto il dominio della dinastia borbonica; c’era lo Stato Pontificio, con Roma, l’Umbria, le Marche e la Romagna, i Lorena a Firenze e in Toscana, il lombardo veneto inglobato nel vasto impero d’Austria, e la Sardegna, la Liguria con il Piemonte sotto l’egida della dinastia francese dei Savoia, che ebbe la fortunosa lungimiranza di farsi paladina di una riunificazione politica della penisola.
Gli abitanti dello stivale sono nella stragrande maggioranza di religione cattolica, fattore che, insieme con la lingua, costituisce l’identità comune, vera e profonda, di una popolazione, politicamente divisa da molti secoli, ma dal DNA formativo comune, con Dante Alighieri ed Alessandro Manzoni al vertice del suo idem sentire.
Nell’Italia formatosi dopo il Congresso di Vienna la politica dei governi restaurati da quei trattati fu apertamente reazionaria, si inasprì il ritorno alle antiche abitudini di regime, all’assolutismo monarchico ed al sistema dei privilegi, mettendo la sordina, con le buone e con le cattive, a qualsiasi sentimento di libertà e di libero arbitrio, accentuando i soprusi di una minoranza di nobili, ecclesiastici e notabili, contro i diritti di tutti i cittadini.
Le leggi, e i conseguenti comportamenti della classe dominante, sancivano il vetusto principio che il popolo è suddito ai sovrani, che sono investiti ( nel medio evo si diceva unti) dalla suprema autorità di Dio: le libertà di pensiero, di opinione, di stampa, di associazione e di riunione non erano permesse, in quanto lesive dell’autorità costituita, e quindi allo Stato sovrano. Negli stati ripristinati dopo il 1815 le leggi napoleoniche sono state abrogate e i privilegi dei nobili e del clero tornano a prevalere.
I vecchi sovrani italici richiamano i vecchi ministri, retrivi, i funzionari sono scelti tra uomini faziosi e scarsi nell’intelletto, incapaci di capire il nuovo corso, gli aneliti del trinomio: libertà, uguaglianza, fratellanza. La elite dominante era composta da aristocratici, che erano la maggioranza dei funzionari pubblici, dei componenti le forze di polizia…. Gente interessata a mantenere l’ordine assolutista. Le masse sembrano essere, almeno sul momento, povere di idee e di reazioni. Gli innovatori sono una esigua minoranza, nelle lettere, nelle arti, nel mondo economico, che però hanno dalla loro l’immenso vantaggio che deriva dalla cultura, dalla capacità d’iniziativa e nell’avere degli ideali.
Mano a mano che queste forze, definite progressiste e liberali, in contrapposizione con i conservatori paladini della restaurazione, prendono coscienza di se, guardando soprattutto alla realtà anglosassone dove si sviluppa la moderna industria e prendono corpo le Trades Unions, trovano ostacoli di ogni sorta nelle disposizioni di norme rigidissime e nello stato di polizia. I tanti patrioti liberali che guardavano ad istituzioni più civili ed a una giurisdizione più adeguata ai tempi furono costretti a riunirsi di nascosto creando dei gruppi operativi che del segreto fecero virtù e necessità.
Tra queste, per numero di adepti e serietà nelle intenzioni, è doveroso ricordare i Patrioti Europei e i Filadelfi, nonché la Massoneria e la Carboneria, queste due ultime unite da un robusto fil rouge, per l’affinità nelle regole, nelle intenzioni, negli atti e nei componenti.
I Frances Masons italiani credono in Dio, identificato come Grande Architetto dell’Universo, e con Mazzini, professano il trinomio Dio, Patria e Famiglia; contestano, però, il clero nella sua prerogativa di classe dirigente e sono contrari al potere temporale del Papa su Roma e lo Stato pontificio.
Vogliono favorire il progresso, condividono i principi propugnati dall’Illuminismo, laddove l’Uomo e le sue ragioni prevalgono sulla superstizione e le paure nate con l’ignoranza della natura che lo circonda.
La Carboneria, nella quale militarono molti massoni, fu la principale organizzazione, logicamente segreta, politica, liberale e patriottica, la quale, nata subito dopo la Restaurazione, fu molto attiva durante il Risorgimento.
Secondo alcune ricostruzioni storiche la Carboneria sorse con riti, simboli e formule pressoché uguali a quelli massonici e si dice che le prime vendite ( così venivano chiamate le riunioni tra gli adepti) ebbero luogo in Calabria, allo scopo di educare il popolo e di distruggere l’influenza del regime borbonico.
La Carboneria ( il carbone purifica l’aria e, quando arde nelle case, ne allontana le bestie feroci) secondo alcuni valenti studiosi, sarebbe stata una derivazione della Massoneria italiana, i cui membri inserirono come priorità l’operare dal campo delle idee a quello dell’azione. I suoi affiliati erano in gran parte erano membri della borghesia, illuminata e liberale, ufficiali e soldati, possidenti e commercianti, artigiani ed intellettuali, come scrittori, magistrati, avvocati, professionisti, giuristi, impiegati, studenti, e persino molti sacerdoti, i quali sognavano regimi liberali e costituzionali, con Camere di rappresentanza popolare, utile e sostenere i diritti dei cittadini. “ Abbiano i Principi italiani ed i loro ministri in evidenza le massime principali oramai conosciute e reclamate dalle moderne nazioni, si facciano paladini di garanzia della libertà civile e personale dei cittadini, pratichino tolleranza di tutti i culti e che venga abolita l’Inquisizione. Venga riconosciuta uguaglianza di tutti in faccia alla legge e per conseguenza venga adottata abolizione di ogni privilegio dei diritti feudali. Che venga eletta dal popolo una rappresentanza nazionale, nella emanazione delle leggi e nella formulazione delle imposte; che venga praticata la libertà di stampa, che si riconosca responsabilità diretta dei funzionari e degli impiegati subalterni in caso di soverchia boria o incapacità negli atti burocratici; che si dia atto alla abolizione della tortura; che venga migliorata e diffusa ai ragazzi ed alle donne la pubblica istruzione ed emanate norme adeguate alla modernità dell’industria e alla tradizione agricola nazionale. Ogni cittadino in grado di poterlo svolgere possa accedere a qualunque impiego, carica o dignità elettiva, purché si trovi nelle condizioni nella capacità di sostenerli con decoro.” Questo è il testo di un articolo apparso sul giornale, naturalmente clandestino, Il quadragesimale italiano, stampato in Romagna, nel numero del 16 marzo 1819.
Il papa re Leone XII, il 13 marzo del 1823, scomunica la Carboneria e nel 1825, a Roma, durante l’anno santo, affrontarono il patibolo in piazza del Popolo, dove vennero ghigliottinati, i carbonari Angelo Targhini, bresciano, e Leonida Montanari, romagnolo, accusati genericamente di…. cospirazione contro lo Stato.
Nel 1851, a Galatina, in provincia di Lecce, venne rinvenuto, tra le carte di Giacomo Coni, di Corigliano d’Otranto, un documento, nel quale si attestano affiliazioni alla Carboneria risalenti al 1817. Oltre al Comi, ebbe un ruolo importante nelle vicende risorgimentali in terra d’Otranto anche tal Donato Granafei, al quale si deve una proliferazione di “vendite” in Puglia, in quanto “oratore” di una di queste.
Alcune di queste proficue “vendite” avvenivano nei giorni di mercato. L’eccezionale flusso di gente che si recavano a Gallipoli, a Galatina, e a Capo di Leuca rendeva più difficile il controllo dei Carbonari da parte della polizia borbonica. In alcune circostanze, specie nel mese di giugno, gli incontri dei carbonari avvenivano in qualche chiesa, nel mentre si celebravano le funzioni religiose. Una di queste assemblee si tenne nel mese di giugno del 1816, durante la festa del corpus Domini, in una chiesa che faceva parte di un convento di domenicani. Si dice che in quel convento fosse ancora un prete secolare aperto alle nuove tematiche democratiche, connivente quindi con i Carbonari. Le cronache del tempo dicono che questi fosse il canonico Papalia, ammirato dai popolani per le attenzioni che portava ai suoi fedeli e agli altri confratelli.
Risale alla prima decade del XIX secolo anche la maturazione dei sintomi di “italianità” del popolo siciliano, protagonista di una grande protesta anti borbonica che fu la prima di altre importanti manifestazioni contro il dispotismo borbonico, nei confronti del quale il popolo siciliano provava una rabbia mal contenuta.
Sono questi i prodromi del Risorgimento, periodo si Storia italiana nel quale si creano le condizioni per la nascita, lo sviluppo e l’affermazione di un movimento teso alla realizzazione di uno stato indipendente unitario e dei principi democratici liberali. Sono tante le testimonianze che avvalorano la tesi secondo la quale il Risorgimento fu una necessità auspicata dal popolo, protagonista delle insurrezioni come quelle siciliane.
A Calatafimi, nel 1820, il popolo partecipò in massa, lottando con scarsi mezzi contro i soldati borbonici, avvertendo il bisogno di una forma di governo più umanitaria, laddove la popolazione venisse sollevata dalle inique ed esose tassazioni e nel tentativo di liberare la Sicilia dalle usanze feudali. Da Calatafimi il popolo si attivò per fare arrivare a Palermo assediata i propri cannoni municipali, aggiunti a 9 campane in bronzo, tolte dai campanili per farne cannoni. Nella cittadina venne infine innalzato il tricolore, simbolo del riscatto e della volonta del popolo per la libertà.
A Castelvetrano fu il popolo ad incendiare e distruggere gli uffici pubblici, simbolo del mal governo, della corruzione e delle vessazioni. A Salemi si formò un comitato insurrezionale che vide la partecipazione di molti componenti sociali. Nel 1848 la città di Castelvetrano insorse contro il Re delle due Sicilie, ma il generale Filangeri riusci a domare la ribellione. I patrioti di quella cittadina, che avevano capeggiato la rivolta, subirono feroci repressioni, il carcere e la tortura; per loro il risultato di tanto eroismo fu la morte, l’esilio o la prigione. Nel 1849, poi, un gruppo di studenti universitari riuscì a costituire una legione di circa 300 armati. Nel 1860, quando il generale Garibaldi sbarcò a Marsala e combattè a Calatafimi, il frate Giovanni Papaleo gettò il saio alle ortiche per seguire i Mille e predicare in favore della Libertà.
E’ prassi comune degli storici l’attribuire alla monarchia costituzionale sabauda il processo di unificazione, ispirata dal pragmatico Conte di Cavour e dalla sua diplomazia, della quale si ricorda il conte Nigra e la contessa di Castiglione. Sono tanti, poi, gli studiosi, in special modo di derivazione cattolica, che considerano il Risorgimento e quindi l’unificazione come evento dal popolo subito e non voluto. Questi studiosi fanno leva delle loro argomentazioni sul fatto che l’istruzione ed il ceto goduto dai pochi protagonisti hanno avuto buon gioco sugli esiti unitari, trascurando le ovvie radici tradizionali locali generaliste, tra cui prevale la fede cattolica. Questa interpretazione, da qualche tempo caparbia ed intrisa di tolleranza, ha lasciato spazio ad una partecipazione protagonistica, avendo palese dimostrazione di infondatezza e di faziosità, così come gli stessi eventi accaduti testimoniano.
L’ex frate Giovanni Papaleo, figlio della Sicilia, scrisse una lunga lettera al suo padre generale per comunicare l’irrevocabile decisione: “ E’ per l’anima sterile, il campo del pensiero, io vado al campo dell’azione….”. Quel Sud, il cui sentimento di italianità la letteratura e la storia fanno risalire persino ai tempi della corte di Federico II, era troppo tempo rimasto senza voce. Solo come protagonista del Risorgimento tornerà a sentirsi vivo, coinvolto, protagonista.
Non tutti i notabili tra i governanti degli Stati ripristinati, però, erano di natura retrivi e di comportamento assolutista; tracce della modernità letteraria e politica, economica e sociale vengono riscontrate in alcuni ministri “illuminati”. Sono pochi, ma esistono, i casi in cui la reazione non assume il volto poliziesco della feroce repressione. Esistono prove certe che taluni uomini di governo degli Stati italiani di quel periodo post napoleonico hanno operato in continuità al riformismo, ritenuto indispensabile al nuovp secolo che era appena iniziato, e che già dava la stura di profondi cambiamenti nel pianeta e nell’intera società con trasformazioni epocali. Cambiamento che non interesso solo le istituzioni, ma anche i costumi, la mentalità singola e collettiva, i comportamenti quotidiani e sociali di uomini e donne, a qualunque classe sociale appartenessero. A Napoli c’era Luigi De Medici, in Toscana Vittorio Fossombroni, a Parma Adam Neipperg, così come nello Stato Pontificio, cuore della cristianità, il cardinale Ercole Consalvi, il quale, per quanto ben operasse ai voleri dei Papi, altrettanto bene mise in mostra una notevole apertura ai nuovi e difficili temi sul tappeto.
La storia dell’Italia del Risorgimento comprende dunque, oltre ai moti carbonari ed alle rivolte mazziniane, che vanno dalla seconda alla quarta decade dell’ottocento, anche pagine che sanciscono la parte avuta da componenti sociali più moderate e più culturalmente avanzate.
Si svilupparono dibattiti e confronti culturali tra i fautori dell’Unità d’Italia, si delineano due posizioni ben distinte, che si contrappongono l’un l’altra. Gli storici le hanno chiamate: “neoguelfismo”, nel quale sono inquadrati tutti coloro che vedono con favore una soluzione federalista degli stati, con a capo il Papa e il “neoghibellinismo” , ovvero il movimento politico culturale propenso ad una unità centralizzata, laica e democratica, sia questa monarchica o repubblicana, purchè fattrice delle istanze democratiche e liberali.
Lunghissimo è l’elenco di personalità della cultura che sono conosciuti anche per essere stati massoni, che si sono distinti nell’arco degli anni in cui si è svolta la lotta contro il dispotismo, alla ricerca dell’unità della patria e della democrazia, oltre al progresso sociale.
In seguito alla estromissione dei Borboni dal Regno delle Due Sicilie ad opera di Giuseppe Garibaldi e la presa di possesso della Casa Savoia di quei territori il Regno d’Italia prende forma, unito al Piemonte, alla Liguria ed alla Sardegna già governate dalla dinastia torinese, a cui si erano aggiunte Toscana, con altri territori, come le Marche e l’Umbria con il plebiscito dal 1859 al 186o. La Lombardia ne faceva già parte per gli accordi favorevoli avvenuti con la seconda guerra d’indipendenza, grazie all’aiuto della Francia, a cui erano state cedute Nizza e la Corsica.
Il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele riunisce la sua Corte ed il Parlamento assume il titolo di Re d’Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione, mantenendo, però, il numero dinastico di “Secondo”, che gli spettava come titolare del Regno di Sardegna.
A centocinquanta anni di distanza l’Italia, repubblicana e membro fondatore dell’Unione Europea, nonchè delle Nazioni Unite, nell’assise delle quali rivendica un posto di maggior rilievo, nell’approssimarsi delle celebrazioni, le autorità preposte si trovano sul tappeto una accanita discussione, che ha per oggetto una vera e propria revisione della storia risorgimentale, quanto una ricostruzione analitica basata su concetti ed avvenimenti portati avanti dagli eredi di coloro che del Risorgimento sono stati avversari: la Chiesa cattolica e il marxismo.
I cattolici o almeno i più oltranzisti, asseriscono che si sia trattato di una serie di soprusi, angherie, atti di forza applicati da una elite di loschi personaggi che avevano in odio i monarchici e il clero. Al contrario le rivendicazione di libertà e fratellanza fra le genti che discendevano da Dante Alighieri, Leonardo da Vinci e Giordano Bruno costituiscono una delle principali caratteristiche fondamentali per l’Occidente, che era stato foriero delle due rivoluzioni della modernità, quella americana e quella francese. Il rapporto diretto tra il popolo e il Buon Pastore non significa la messa in discussione dell’esistenza di Dio; significa, invece, la messa in discussione del potere temporale del Papato, decenni più tardi riconosciuta da quel sacerdote bresciano che negli anni sessanta salirà al soglio pontificio con il patronimico di Paolo VI ( carteggio rinvenuto nella biblioteca del Seminario di Brescia, datato 1932). A questa primaria esigenza si deve assommare, poi, quella di modificare una volta per tutte le prerogative rivenienti dagli usi e costumi delle vetuste società ancestrali, nelle quali nobiltà e clero si erano riservate dei privilegi terreni e non solo
( pensiamo al diritto alla istruzione ed al libero arbitrio).
In gran parte dell’Europa, in Germania e in Gran Bretagna più che altrove, si stavano affermando le teorie filosofiche di Carl Marx ( 1818 – 1883), il quale poco o niente propugnava sulla libertà di pensiero e azione, puntando solo ed esclusivamente alle rivendicazioni sociali e salariali di un proletariato genericamente sfruttato e che nulla contava, per la nuova borghesia, per la nascente industria, per la vecchia società rurale, per i nobili e per il clero. Dunque, asseriva Marx, il proletariato avrebbe dovuto puntare solo ed esclusivamente sulle rivendicazioni sociali, per arrivare alla presa di potere da parte di costoro, con ogni mezzo possibile.
Queste due correnti di pensiero, tuttavia, non sono riuscite del tutto a scalfire quanto di buono e positivo il Risorgimento italiano abbia rappresentato per il benessere ed il progresso del nostro Paese, anche se indubbiamente di errori ne furono commessi.
Il repubblicanesimo mazziniano, specie dopo la metà degli anni cinquanta di quel secolo, era maturato in una presa di coscienza più civile e meno rivoluzionaria, spingendo alcuni tra i suoi uomini migliori persino a collaborare con la monarchia; mentre il fronte dei moderati accentuava il confronto tra i “neoguelfi” e i “neoghibellini”.
Uno degli esponenti di spicco tra i neoguelfi va annoverato Vincenzo Gioberti. Questo movimento, intellettuale e politico, sorse per affermare i valori di un cattolicesimo nazionale in senso liberale. Si sperava di riuscire nell’impresa di trasformare l’organizzazione ecclesiale in un apparato più democratico e meno retrivo, giungendo ad auspicare un vero e proprio primato morale dell’Italia cattolica sull’Europa dei Popoli.
Punti cardine dei neoguelfi erano: l’idea dell’unità nazionale da conseguire attraverso una confederazione di stati presieduta dal papa, con forti aperture all’autonomismo e al federalismo localistico, oltre che ritornare alle origini del cristianesimo romantico delle origini post romane. Vincenzo Gioberti descrisse nel suo libro “Il Primato” molto efficacemente questi pensieri, trovando un discreto coacervo di consensi tra gli intellettuali, politici, militari ed ovviamente molti sacerdoti.
Vincenzo Gioberti è nato a Torino il 5 Aprile 1801. Nel 1826 era già sacerdote e cappellano. In una prima fase si convinse delle ragioni rivoluzionarie, che gli costarono l’arresto nel 1833 e l’esilio, prima a Parigi e poi a Bruxelles, dove sbarcò il lunario insegnando filosofia e storia. Il fallimento dei moti mazziniani in Savoia ed in Piemonte del 1833 lo convinsero ad abbandonare le istanze mazziniane per elaborare le principali teorie del neoguelfismo. Nel 1843 esce nelle librerie Il Primato morale e civile degli italiani”. Gioberti è, parimenti a Mazzini, convinto che l’Italia abbia una missione da portare a termine, ma a differenza del profeta laico genovese, il torinese è convinto che questa missione sia di stampo religioso.
Scoppiati i moti del 1848 Gioberti tornò in Piemonte, fu eletto deputato e, se pur per breve tempo, fu a capo del governo piemontese. Dopo la sconfitta dei piemontesi ed i loro alleati a Novara del 1849, tornò a Parigi, dove morì il 26 ottobre 1852.
Tra i tanti esponenti di questo movimento si schierò anche Alessandro Manzoni, autore di molte opere letterarie famosissime, tra le quali l’Adelchi e il più celebre I Promessi Sposi, ma vi furono anche Gino Capponi e Cesare Balbo.
Gino Capponi nasce a Firenze il 13 settembre del 1792. Fece parte delle istituzioni del Granducato come Insigne Senatore. Fu studioso emerito di economia, statistica e agricoltura, in quest’ultima apportando notevoli migliorie ambientali ed economiche, a reciproco vantaggio del padrone del fondo e dei braccianti.
Fondò, con Giampietro Viesseux L’Antologia e dal 1842 fu tra i promotori e realizzatori del primo Archivio Storico Italiano. Era, insomma, un fervente cattolico, aperto alle nuove esperienze continentali e ad una riforma in senso moderno della Chiesa cattolica. Per i giovani studenti si battè per nuovi modelli di insegnamento, secondo i nuovi canoni delle nuove idee liberiste e non secondo precetti opprimenti. L’intuito, l’esempio ed il cuore, secondo Capponi, erano le linee guida di un insegnante erudito in senso moderno. Dall’agosto al settembre del 1848 assunse anche l’incarico di Presidente del Consiglio nel Granducato. In seguito alla tenace applicazioni delle sue idee liberali venne tenuto in disparte dagli stessi Lorena, timorosi di appoggiarlo in contrasto ai conservatori. Si ritirò a vita privata dedicandosi ai suoi libri e agli studi storici. Nonostante fosse divenuto cieco nel 1859 fu uno dei promotori dell’annessione al Piemonte e nel 1860, senatore del Regno, partecipò alla vita parlamentare fino al 1864.
Cieco, ammalato e disilluso, nella sua Firenze, che aveva visto divenire capitale del Regno d’Italia ( 1865 – 1871) visse assistito e curato, ma ormai lontano dalla vita politica.
Nella città toscana morì il 3 febbraio 1876.
In comune con i neoguelfi anche i neo ghibellini erano arrivati alla determinazione che l’Italia unito non ci sarebbe stata con le rivoluzioni, le sette, ma che utile e proficuo era lavorare alla conciliazione di tutte le componenti politiche dello stivale, le varie forze, i tanti elementi, il papato e le monarchie, da unirsi federativamente in libertà e nel progresso civile e sociale. Secondo gli uni e gli altri il clima della conciliazione significava compromesso e questo non si fa senza che alcuno ceda qualcosa; i liberali e i repubblicani dovevano rinunziare ai mezzi violenti e collaborare alla miglior riuscita dovuta ad una collaborazione generale. Mentre i neoguelfi sostenevano il primato papale, cui sarebbe spettato la presidenza della federazione, i neo ghibellini puntavano più sul lato laico, foss’anche monarchic con la Casa Savoia, che pure aveva titolo. I vecchi metodi, però, come l’assolutismo sovrano e le prerogative terrene del papa come l’infallibilità e l’immobilismo teologico dovevano essere accantonate, in nome della modernità e del libero arbitrio tra le genti, che avrebbero potuto vivere ed opere in uno stato multi confessionale.
A Cesare Balbo (Torino 1789 – 1853) piacque la filosofia giobertiana, dopo aver attentamente letto Il Primato; tuttavia non accettava che, se le utopie repubblicane non avevano avuto la mano vincente sul grosso dell’opinione pubblica, questa fosse il viatico per un’altra utopia, da lui giudicata ancor più nociva per lo stato che doveva formarsi, ovvero una affermazione della versione cattolica più oltranzista, che sovrapponeva il primato papale a quello istituzionale. “C’è una differenza” affermava Cesare Balbo “ tra il filosofo e l’uomo politico. Il filoso lavora attorno ad idee e principii ed i principii perché siano attuati ci vogliono decenni e secoli. Ragion per cui i mezzi proposti dai filosofi sono lontani nel tempo e dalle quotidiane necessità… umori, accidenti, interessi, passioni. L’uomo politico ha dinanzi a se solo un piccolo spazio di tempo, al massimo quanto può durare una o due generazioni. Occorrono all’uomo politico mezzi e non ideali”.
Cesare Balbo scrisse “Le speranze d’Italia”, opera dedicata a Gioberti. Il succo del lavoro di Cesare Balbo si può descrivere nella massima secondo la quale per cercare uno scopo sperabile, occorre prima allontanare da noi i sogni e le utopie. Balbo è uomo politico avvezzo a maneggiare fatti, diffida delle teorie, è uno storico. “Il papato è stato” scrive, “il medio evo non torna più, il futuro appartiene ad altra corrente”.
Mentre Gioberti, sbrigativamente divide il mondo in cattolico ed acattolico, Balbo guarda le cose con minor esagerazione e discetta dei primati non solo religiosi ma naturali, come quello dell’arte per gli italiani, della politica per i francesi e della attenzione ai particolari dei popoli dell’Europa del Nord, ivi compresi i riformati, disprezzati dal Gioberti.
Nel suo volume di maggior pregio Le speranze d’Italia Cesare Balbo rammenta il primato germanico, durato molti secoli, da Carlomagno ai Comuni e le Signorie; oltre al primato papale ricorda anche quello spagnolo, e quello francese, ricordando la corona britannica in quel tempo organizzata istituzionalmente in guisa di impero.
Balbo continua la disamina dei concetti giobertiani proponendo uno scopo più pratico del suo: “ Gioberti dice in sostanza che solo il Papato sarà rispettato dalle altre nazioni cattoliche per prime e dalle altre confessioni poi, come la terra che ricetta il rappresentante di Pietro, il progetto mazziniano dell’unità nazionale non è di facile attuazione, per le troppe rivalità, addirittura secolari, per le tante città d’Italia. Solo il papa poteva essere il principale fattore della redenzione italiana, come territorio e come entità pubblica, secondo Gioberti, e a questo Balbo, mettendosi contro anche Alessandro Manzoni, replicò con l’Italia dantesca, che chiedeva aiuto a potenze straniere, convinta che il prezzo da pagare nell’essere conquistati fosse minore a quello di essere unificati; conquistatori e conquistati si sarebbero uniti, come era avvenuto con i Galli, i Longobardi e i Visigoti, i cui geni facevano parte degli italiani da formare.
Una delle personalità più incisive da prendere in considerazione per il tema che andiamo svolgendo è Massimo D’Azeglio ( 1798 – 1866), uno tra i letterati e politici italiani più notevoli di quel periodo.
Quando il padre Cesare, diplomatico piemontese, venne inviato per una ambasceria presso Pio VII, questi si portò dietro l’intera famiglia, dando modo al giovane Massimo di andarsene in giro per la Caput Mundi.
Contemplando i monumenti romani Massimo D’Azeglio ebbe modo di riflettere sulla grandezza italiana, che gli risvegliava nell’animo i sentimenti di patria, libertà, gloria, grandezza nazionale…. Roma… Italia. In quel tempo i giovani futuri italiani avevano passato le medesime esperienze, subire la prima istruzione retriva, poi riflettere, quindi ristudiare, rifarsi una educazione e nel momento opportuno per molti mettere da parte gli studi e farsi soldato d’Italia. Fino ai vent’anni Massimo D’Azeglio ha dovuto lottare contro la sua famiglia, contri i maestri, contro la sua classe, contro la restaurazione dal sapore acre del medio evo. Il padre asseriva che Roma gli aveva guastato il capo, dacchè non accettava più gli insegnamenti di un ecclesiastico dalla mentalità che sapeva di antico. A sedici anni divenne ufficiale di cavalleria. Stanco di quella vita ben presto Massimo D’Azeglio volle tornare a Roma, con il padre che gli diminuì di molto il sussidio che gli spettava.
Per dieci anni almeno visse una vita da bohemienne, correndo per la Roma antica e per tanti paesi attorno a studiar la natura ed imparar l’arte del dipingere, rifugiandosi la sera in casa di contadini ai quali si rendeva utile lavorando mezzadro o, se aveva denaro, pagando dozzina. Nato gentiluomo ed agiato non di dispiaceva della vita che conduceva; questo accadeva nei mesi estivi, però, che nell’inverno si rintanava in casa e continuava gli studi, e frequentando letterati ed artisti che in Roma erano a frotte. I quadri da lui dipinti hanno titoli epici: La disfida di Barletta, la battaglia di Legnano, quella di Gavinana; più tardi ebbe il periodo dell’Ariosto e del suo Orlando furioso, con le belle figure di Angelica, Astolfo e Bradamante. I milanesi accorrevano in massa alle esposizioni dell’Accademia di Brera, ad ammirare i dipinti di Massimo D’Azeglio, con la gendarmeria austriaca non poteva far nulla per contrastare quella mirabile allegoria della grandezza nazionale, la nuova protesta contro la dominazione straniera.
Si cimentò anche nella scrittura, con temi simili ai soggetti dei quadri e le medesime finalità; numerosi furono i lettori dell’Ettore Fieramosca. L’indipendenza, diceva Massimo D’Azeglio nei Circoli che frequentava è la condizione per avere tutto il resto, cacciamo via lo straniero. Per aver dato alle stampe il volume Gli ultimi casi di Romagna, nel quale condannava le inique sentenze per i moti di Rimini, D’Azeglio fu allontanato da Roma e successivamente bandito da Firenze; poi torna a Roma, perdonato da Pio IX.
In seguito agli avvenimenti occorsi nei primi mesi del 1848 D’Azeglio da alle stampe il volume Lutto di Lombardia, che dedicherà ai milanesi. Sono pagine concitate, colleriche, per le occasioni di rivolta mal espresso o mancate. Nelle librerie il volume andò a ruba, tanto da essere considerato dagli studiosi come il primo stormo di campane suonate onde incitare i milanesi alla rivolta delle Cinque Giornate.
Da uomo politico e di cultura, da artista e scrittore D’Azeglio considera il neo guelfismo giobertiano, ovvero il tentativo di avvicinare le idee cristiane al mondo moderno, come cosa imprudente, non matura almeno, finchè, nel campo dell’azione le idee della modernità non abbiano compiuta l’auspicata diffusione nella penisola. In Piemonte, fu senatore, poi ministro, capo di governo a Bologna nel 1859, e governatore della provincia di Milano. Fu genero di Alessandro Manzoni, di cui sposò la figlia Giulia. Scrisse le sue memorie sulle rive del lago Maggiore, stanco, deluso e malmesso in salute. Morì a Torino il 15 gennaio 1866.
Con il volume Lutto di Lombardia D’Azeglio è considerato uno tra i principali istigatori della rivolta milanese contro le truppe occupanti dell’impero d’Austria; orbene, è questo uno, tra i tanti episodi storici del Risorgimento italiano, dei più adatti a dimostrare quanto ogni ceto, ogni categoria, ogni persona abbia avvertito il dovere della ribellione contro il dispotismo assolutista e lo stato di polizia.
Dal 18 al 22 marzo del 1848. Così scrisse il feldmaresciallo Radetzky, comandante militare delle forze di occupazione: “ La città di Milano è sconvolta dalle fondamenta ed è difficile mantenere il controllo sulla popolazione. Il carattere di questo popolo è cambiato, non è più mite. Centinaia di barricate chiudono le vie d’accesso. La lotta contro di noi ha pervaso ogni età, ogni ceto, ogni sesso”.
Migliaia di milanesi insorgono contro la truppa; semplici popolani, donne, vecchi, bambini ( gli orfani dei collegi gestiti dal clero si offrono come portaordini – i Martinit), militari,politici, studenti, commercianti, artigiani e persino religiosi. Furono in tanti i cronisti, e non solo italiani, a scrivere che Le Cinque giornate di Milano del 1848 appaiono come la più valida dimostrazione della coesione sociale e civile. Non solo di Milano, ma dell’Italia.
Dopi i moti mazziniani, che vanno dal 1830 al 1860, a cui presero parte non solo eruditi ed artisti, militari o nobili illuminati, ma anche ogni rappresentanza di popolo, pagando con il sacrificio della vita il raggiungimento dell’ideale unitario, anche la ribellione della Città di Brescia, avvenuta tra il 23 marzo e il 1 aprile del 1849, presenta gli stessi contenuti di partecipazione. Scritta con il sacrificio e la purezza degli eroi è anche la gloriosa impresa della Repubblica Romana, che durò cinque mesi, per finire con la resa ai francesi e la trafila garibaldina. Dal 17 marzo al 24 agosto 1849 anche Venezia visse la sua ribellione popolare, con Daniele Manin principale protagonista.
Articolo pubblicato in occasione del CL anniversario dell’unità d’Italia su Il Legno storto, 9 Febbraioo e
Pensalibero, testate elettroniche del pensiero laico.
Il contributo del clero al Risorgimento italiano.
Così come non vi è rosa priva di spine o lupo desideroso di mangiar carne, anche tra i fautori di uno stato italiano, unitario e liberale, sia i fautori del federalismo alla Gioberti o del governo accentrato nella monarchia “costituzionale” dei Savoia, commisero degli errori. Tra i più seri da mettere in luce vi sono alcune prese di posizione culturale che poco hanno di utile, in quanto settarie e partigiane, utili sotto alla disputa su quale fosse “ meglio convenga alla felicità degli italiani”, per dirla con un pensatore politico, il sacerdote Melchiorre Gioia ( Piacenza 1767 – Milano 2 Gennaio 1829) il quale dette questo titolo ad un saggio scritto da giovanissimo, con il quale vinse un concorso letterario, e che più tardi patì persino il carcere per le sue idee democratiche innovative.
In Sicilia, in Puglia, nello Stato Pontificio, in Liguria, a Mantova, Napoli, Brescia, Milano e Venezia grande parte del popolo aveva dato un contributo di lacrime e di sangue alla causa unitaria, con i moti mazziniani del 1831 e con le sollevazioni nelle città più importanti dello stivale, dal 1848/49 ( Repubblica Romana) al 1860, anno dell’impresa dei Mille.
La partecipazione era stata di tutti, giovani, vecchi, donne e bimbi, studenti ed artigiani, militari e contadini, avvocati, medici, commercianti, artisti e letterati, così come molti ignoranti, se non analfabeti.
E tra costoro spicca un certo numero di sacerdoti, convinti che non si trattasse della messa in discussione della divinità e della sua gloria, quanto di una cosa esclusivamente terrena, il diritto delle persone a vivere una vita più dignitosa, diritti civili, salute e la serenità del futuro compresi.
Dopo aver fatto cenno a Melchiorre Gioia, con il quale è importante iniziare questo capitolo, dedicato agli uomini di chiesa che del Risorgimento sono stati protagonisti a pieno titolo, con:
padre Diego Argiroffo (1738 – 1800). Era frate francescano. A Chiavari fece parte di una cerchia di intellettuali impegnati ad animare la società ligure, sia sul versante dell’economia che nelle altre branchie delle nuove scienze moderne, come la sociologia e la sanità pubblica. Sul monte Fasce, alle spalle della cittadina ligure, durante un breve viaggio questo frate, mite ma risoluto, si imbattè in una pattuglia di soldati austriaci, i quali pretendevano che frate Diego inneggiasse con loro all’imperatore d’Austria. Ai ripetuti rifiuti del religioso i solerti sudditi in divisa lo accostarono ad un lato della strada e lo fucilarono. Viene considerato la prima vittima italiana uccisa per ragioni politiche dalle truppe asburghiche che si trovavano colà per contrastare il generale Napoleone nella sua Campagna d’ Italia.
A Modena il duca Francesco IV si adoperò per emanare un decreto che sanciva la pena di morte, mediante decapitazione, da comminarsi a tutti coloro che avessero fatto parte di qualsivoglia società segreta, specie quelle eversive. Nel gennaio del 1821 alcuni soldati della truppa absurgica rinvenirono alcuni manifesti, scritti in latino, nei quali era rivolto l’ invito a disertare, per non partecipare a quella campagna di terrore.
Il quattordici marzo del 1822 un autorità prefettizia venne ferita da uno studente in modo grave, con un colpo di pugnale. La polizia del duca si mosse in modo inflessibile, mettendo sotto l’accusa di cospirazione almeno una cinquantina di cittadini.
Tra questi vi era Don Giuseppe Andreoli, nato nel 1791 e domiciliato a Correggio. In un primo momento si era dedicato agli studi di ingegneria, per poi seguire lo stato ecclesiastico, diventando professore di eloquenza. E’ descritto di semplici modi e di innocenti costumi, e si dice fosse dotato di nobile ingegno. Le cronache di Correggio riportano: “ Tutti i più onesti e generosi cittadini lo amano perché rende decoro alla comunità e studia vasi di cooperare a tutto ciò che potesse renderla libera e grande.” Sospettato di far parte della Carboneria subì pesanti interrogatori ed una sorta di arresti domiciliari, durante i quali con lusinghe e minacce gli venivano fatte delle promesse per scagionarlo purché ammettesse le sue colpe e denunciasse i complici. Sottoposto allo stesso trattamento da uno dei congiurati venne processato assieme ad altri ventidue sospetti, dei quali sette condannati a morte, con la sentenza del 11 settembre 1822. Don Giuseppe Andreoli era uno di quei sette. Il suo diretto superiore, il vescovo di Reggio, tentò una vibrata supplica presso il duca, il quale, inflessibile, confermò la condanna.
Poco prima della sentenza venne messa in opera la procedura della sconsacrazione, atto incivile e disumano, al quale alcuni cittadini tentarono la protesta, vana. Poiché, in seguito alla sentenza di morte, gli erano stati sequestrati tutti i beni, prima di lasciare il carcere per il patibolo donò ai reclusi a chi la tabacchiera, a chi il fazzoletto, a chi un libro.
La sentenza era fissata per il mezzogiorno. Pioveva a dirotto quando il corteo di morte partì per il patibolo.
Le guardie, il boia e il frate confessore, che accompagnavano il condannato, vennero fermate per il cammino da un gendarme perché il destino è cinico; la sentenza doveva essere eseguita alle 12 in punto ed il corteo di morte era in forte anticipo., mancavano ancora 35 minuti. Don Giuseppe Andreoli rifiutò di tornare in carcere e aspettò l’ora, seduto su un muretto, recitando preghiere.
Appena calò, la lama troncò il suo capo, smise di piovere e spuntò il sole, sicchè il popolo disse che era morto un martire. Sulla lapide che ricorda il suo sacrificio, a Correggio, c’è scritto: “ Così fu ucciso il sacerdote Andreoli, per aver, con puro e generoso animo aspirato a cacciar via le tenebre della servitù dalla sua nobile patria.”
Nell’estate del 1828 nei paesini a ridosso delle montagne del Cilento ebbero luogo dei moti rivoltosi, promossi da aderenti a società segrete, tra le quali la Carboneria, insurrezione avente per obiettivo il ripristino della Costituzione concessa da Ferdinando I, re Delle Due Sicilie, il 6 luglio del 1820; pochi mesi dopo, durante un incontro dei restauratori a Lubiana, lo stesso monarca chiese l’intervento delle forze della santa Alleanza, al fine di ripristinare il regime assolutistico post napoleonico. A capo della congiura del Cilento era Antonio Maria De Luca, carbonaro, eletto deputato nel 1820, durante i pochi mesi in cui era stata in vigore la Costituzione del 1820, che era un canonico, appartenente alla Congregazione del Santissimo Redentore.
Laureatosi in teologia il canonico De Luca, nato In provincia di Salerno il 20 Ottobre 1764, si dedicò prima all’insegnamento e poi alla predicazione, visitando molte cittadine dei distretti di Salerno e di Napoli. Da deputato molto si battè in favore dei contadini, contro il latifondismo dei nobili e del clero. Fatta decadere la Costituzione Ferdinando I ordina alla polizia borbonica di includere il canonico tra i sorvegliati speciali. Durante un omelia, il 7 luglio 1828, il canonico De Luca espose ai fedeli i vantaggi di uno stato costituzionale. Denunciato da alcuni delatori riuscì a sottrarsi con la latitanza alla cattura. Poco dopo venne catturato, arrestato e fugacemente processato dalle autorità di polizia. Anch’egli subì, poche ore prima della condanna, l’onta della sconsacrazione. Venne fucilato a Salerno, in uno spiazzo alle porte della città, di fronte ad una piccola folla ammutolita, il 28 luglio 1828.
Giuseppe Ugo Bassi nasce a Cento di Ferrara il 12.08.1801. E’ adolescente quando le truppe napoleoniche occupano anche la sua città natale; è di animo sensibile, ma possiede un temperamento energico, che lo renderà attratto verso le nuove frontiere sociali. Nel 1816 entra in un collegio barnabita; ricevette oltre a quella religiosa l’insegnamento dei classici, maturando una profonda vocazione religiosa. I familiari si dimostrarono contrari, ma Ugo fu irremovibile e prese i voti. I superiori lo destinarono all’insegnamento. Imparò con bravura a suonare il cembalo, la chitarra e il violino; scrisse racconti, ed esercitò l’arte del dipingere con estro e abilità. Come predicatore si rese famoso, recandosi a Bologna, Milano, Venezia, Livorno, Palermo e soprattutto nella chiesa di San Carlo a Roma. Le continue denunce contri i mali della società lo resero inviso alle autorità, sia civili che religiose. Ad Ancona, nel 1848, si attivò per raccogliere fondi ed arruolare volontari. Grande fu la delusione di Ugo bassi, prete barnabita, e profondo lo sconforto quando Pio IX rinunciò ad impegnarsi per la causa italiana.
Il 4 Marzo 1849 Ugo Bassi è a Roma. Garibaldi lo nomina cappellano della sua legione di volontari. Tutti gli storici sono concordi nell’affermare che alcuna arma egli possa aver imbracciato. Raccolse i feriti di San Pancrazio ed operò con fervore e dedizione negli ospedali e in prima linea. Molti furono gli eroi a difesa della Repubblica Romana che dalle sue mani ricevettero gli ultimi sacramenti, e tanti i feriti da lui amorevolmente curati. Perse le speranze di una vittoria anche Ugo Bassi lasciò Roma il 30 marzo, unendosi
al generale, che con Anita ed i suoi uomini, voleva raggiungere Venezia dove infuriava una rivolta. L’odissea dei fuggiaschi duro oltre un mese ed è celebrata con il nome di Trafila garibaldina. Le truppe nemiche li inseguivano da ogni parte. I governanti della Repubblica di San Marino li fecero entrare nei loro territori. Erano tutti laceri, affamati, demoralizzati. Ugo Bassi assistette i feriti nel Convento dei Cappuccini. Assieme a 250 uomini, Ciceruacchio e suo figlio, ed Ugo Bassi, Garibaldi riuscì a eludere l’accerchiamento, dirigendosi verso il mare. Nella notte tra l’ 1 ed il 2 agosto il manipolo raggiunse Cesenatico. Alcuni soldati croati vennero fatti prigionieri. Vennero requisite 13 imbarcazioni, chiamate “bragozzi”, ed alle tre di notte i legionari iniziarono l’imbarco. Essendo il gruppo che comprendeva il generale troppo numeroso, per dare meno nell’occhio Ugo Bassi ed un altro soldato si diressero da soli verso Comacchio. Intercettati da una pattuglia di soldati austriaci vennero arrestati in un’osteria dove si erano fermati a mangiare. Delegati della curia di Comacchio si presentarono al comando austriaco per chiedere il rilascio del barnabita, protetto dal diritto canonico. Il giorno 5 agosto i due arrestati vennero trasferiti a Bologna. Il comandante la guarnigione, forte dei suoi poteri, derivati dallo stato di guerra ordinò senza processo la fucilazione dei due prigionieri.
Incatenati ai polsi vennero condotti nel luogo dell’esecuzione e giustiziati senza misericordia.
Tra il 1851 e il 1852 la città di Mantova fu teatro di alcune vicende che si inseriscono tra le pagine più tristi, ma al tempo stesso più gloriose della storia del Risorgimento italiano, ovvero l’esecuzione capitali di molti patrioti mantovani, conosciuta come Martiri di Belfiore, dal nome della località dove erano eseguite le condanne a morte.
Con il congresso di Vienna gli austriaci avevano preso possesso di Mantova e ne avevano fatto uno dei capisaldi del famoso “Quadrilatero” difensivo dell’occupazione asburgica, con le altre tre roccaforti: Peschiera, Verona, Legnano.
In città arrivarono ad essere acquartierati fino a 10.000 soldati, provenienti dalle tante nazioni inglobate nell’impero austro ungarico. Tanti militari, centinaia di funzionari imperiali e le loro famiglie, i loro dipendenti e una schiera di imprenditori al loro seguito generarono conflitti con la popolazione residente, aiutando la diffusione degli ideali liberali e di indipendenza.
Verso la fine del 1851 venne arrestato a Mantova il sacerdote Don Giovanni Grioli, che era nato nel capoluogo l’ 8 ottobre del 1821. Entrò in seminario nel 1836. Il suo arresto avvenne in seguito all’accusa di aver tentato di corrompere due soldati di origine veneta dell’esercito occupante, i quali avevano denunciato ai loro superiore questo mal riuscito contatto, del quale unico riscontro restano agli atti solo le due testimonianze, senza altri riscontri o prove. In realtà, decenni dopo, alcuni conoscenti del sacerdote diranno che questi aveva solo aiutato i due a sfamarsi dando loro alcune monete. Dopo essere arrestato le autorità inquirenti fecero perquisire il suo appartamento, trovando del materiale, definito di propaganda rivoluzionaria. Don Giovanni Grioli, interrogato tramite tortura, dopo un breve processo, naturalmente privo di qualsivoglia garanzia giuridica, viene condannato a morte. La sentenza viene eseguita il 5 novembre del 1851, tramite fucilazione. Per vendicare la morte del sacerdote Tito Speri, affiliato alla Carboneria, si assunse l’incarico, assieme a tal Carlo Poma, di attentare alla vita del commissario di Polizia in Mantova, prefetto Filippo Rossi. L’attentato non venne mai eseguito, poiché, in seguito alle torture subite, uno dei congiurati, che era stato catturato, svelò l’intera trama e i nomi dei complici.
In seguito ad un’indagine, relativa alla circolazione di banconote austriache falsificate, in una abitazione di un indagato, venne trovata una cartella da L. 25 relativa al prestito lanciato dal movimento mazziniano per la campagna insurrezionale. Il possesso di questa ricevuta venne fatto risalire al sacerdote Ferdinando Bosio, professore al seminario cittadino, che venne immediatamente arrestato. Una perquisizione nel suo alloggio portò alla scoperta di altro materiale compromettente, tanto da rischiare la pena di morte. Il prete venne sottoposto ad una serie di stringenti interrogatori ( pare venisse quotidianamente bastonato); al punto che, con la promessa di avere salva la vita, alla fine rivelò i nomi dei capi dei congiurati, il principale, il più noto, il più importante dei quali era Don Enrico Tazzoli.
Nato a Canneto sull’Oglio nel 1812, Don Enrico era noto agli aguzzini imperiali, per essere già stato sottoposto agli arresti, il 12 novembre 1848, con l’accusa di aver pronunciato, in chiesa,una predica contro la tirannia.
Don Tazzoli era molto impegnato nella assistenza ai malati, ai poveri, ai bambini e alle donne, faceva dell’educazione popolare uno dei suoi punti di forza. Era conosciuto per questo genere di apostolato, tramite il quale diffondeva la sua convinzione di un moderno cristianesimo, umanitario e democratico,aperto alle rivendicazioni portate avanti dal Risorgimento nazionale unitario.
Il 7 dicembre 1852 Mantova assistette impotente all’impiccagione di cinque patrioti, Scarsellini, Poma, De Canal e Zambelli, oltre a don Tazzoli, che non venne risparmiato al capestro.
Due anni prima, il 2 novembre 1850, diciotto mantovani presero parte alla seduta cittadina che pose le basi di un comitato insurrezionale anti austriaco. Don Tazzoli, uno dei principali organizzatori, era d’accordo con lo stesso Mazzini, in quel momento esule a Londra, al fine di lanciare la sottoscrizione segreta delle cartelle per un Prestito Nazionale. Il 27 gennaio del 1852 don Tazzoli venne arrestato di nuovo. Il 24 novembre di quello stesso anno, il sacerdote condannato a morte subì da parte del vescovo Giovanni Corti il ritiro dei paramenti sacri, che gli vennero prima fatti indossare per essere rimossi, e, addirittura, alla barbara usanza del raschiamento delle dita, con un coltello, in quanto le stesse avevano sorretto l’ostia dell’eucarestia.
Risolto il conflitto con il diritto ecclesiastico gli aguzzini il 13 novembre 1852 venne confermata la condanna ai cinque, mentre altri ebbero la vita risparmiata, commutati in molti anni di carcere.
Il 7 dicembre le cinque condanne vennero eseguite a Belfiore, poco fuori le mura della città.
Il sud d’Italia, tornato borbonico, dopo il 1815, era percorso dai fermenti rivoluzionari mazziniani, culminati nell’impresa garibaldina dei Mille del 1860, durante la quale si mise in evidenza il frate Giovanni Papaleo ( 1831 – 1879) il quale, per la sua attività politica si vide costretto a lasciare il saio, nel dicembre del 1864. Morì a Roma il 3 agosto del 1879, a soli 44 anni.
Di spessore va considerato il contributo fornito dal presbitero Vincenzo Padula.
Nato ad Acri, provincia di Cosenza, il 25 marzo del 1819. L’ordinazione al sacerdozio avvenne nel 1843. La sua vocazione era, oltre alla religione, lo studio dei classici e la letteratura. E’ del 1843 la novella in versi Il monastero di Sambucina; nel 1845 venne pubblicato il poema “ Il valentino”, dove appare evidente il tentativo di dipingere la società calabrese di quel periodo con i suoi contenuti “quasi selvaggi” come viene descritto nelle antologie letterarie che lo riportano le sue opere.
Vincenzo Padula aderì alla rivolta anti borbonica del 1848, durante i quali perse la vita il fratello Giacomo. In seguito al suo coinvolgimento perse il lavoro ed aprì una scuola privata, che fu costretto a chiudere in quanto le autorità gli tolsero il permesso. Alcune famiglia di mentalità liberale lo aiutarono dandogli l’incarico di precettore per i loro figli.
Nel 1854 si stabilisce a Napoli, tentando di concorrere alla cattedra universitaria di letteratura. Si dedicò al giornalismo e vide pubblicata una traduzione dal latino all’italiano delle pagine bibliche de L’apocalisse, cui aveva inserito commenti in chiave moderna.
Quando Firenze era capitale dell’Italia appena riunificata, siamo nel 1867, venne chiamato dal Ministro dell’Istruzione, che ne fece il suo segretario particolare.
Nel novembre del 1878 ottenne una cattedra a Parma, di Letteratura latina e vi rimase per due anni.
Nel 1881 era già tornato a Napoli, dove si spense l’8 gennaio del 1893, stanco, deluso e malato.
A Nola il 18 marzo del 1783 nasce Luigi Minichini; entrato nel seminario della città natale nel 1798, per entrare nell’Ordine dei Frati minori conventuali. Accusato dall’infamante accusa di tentato avvelenamento nei confronti di un confratello fu costretto a lasciare l’abito talare.
Entrò nella Carboneria dopo aver trovato il modo di lavorare come insegnate in scuole laiche. Partecipò alla rivolta del 2 luglio 1820 a Nola, per la quale divenne fautore del coinvolgimento dei contadini, piuttosto che della borghesia e dei militari. Recatosi successivamente prima in Sicilia e poi in Sardegna, non ottenne favorevoli risultati positivi alla sua predicazione in favore della rivolta contadina.
Fu esula prima in Spagna e poi in Inghilterra, dove abbracciò la religione protestante. Nel 1825 si imbarcò per gli Stati Uniti d’America, dove morì a Filadelfia nel 1861, raggiante per le imprese italiane e le campagne del generale Garibaldi.
Con la Breccia di Porta Pia del XX settembre 1870 i bersaglieri di La Marmora entrarono a Roma, che venne così congiunta al regno D’Italia. L’anno successivo i Savoia, il loro governo, i deputati e tutto l’apparato statale lascia Firenze per insediarsi nella città del Cupolone, dando l’avvio al pluridecennale contrasto con il papato.
Tutto lo stivale era ormai nazione una, salvo il triangolo a nord est, dal Tirolo a Trieste, che restava nei possedimenti dell’impero austro ungarico.
Occorre arrivare fino al 1918, quando, l’Italia, a fianco della Francia e della Gran Bretagna, riesce vincitrice degli austriaci e torna a far sventolare il tricolore a Gorizia, Udine, Trento e Trieste.
Sono circa cinque decadi durante i quali l’Italia consolida la sua unità; migliorano tanti stili di vita, mentre il dibattito politico è sempre più acceso tra cattolici e liberali, monarchici e repubblicani, socialisti e capitalisti.
Due sono i personaggi che si ritiene utile ricordare; due martiri a pieno titolo del Risorgimento italiano: Guglielmo Oberdan e Cesare Battisti, senza voler dimenticare le decine di altri eroi, che si sono immolati per la causa italiana post unitaria, come Nazario Sauro e Fabio Filzi, tanto per citare i più noti.
Dunque non insurrezione isolata di pochi elementi contro un potere regolare e validamente costituito, ma movimento di massa aspirante alla democrazia, alla libertà, al libero arbitrio, all’uguaglianza ed al riscatto dei più deboli, come le donne, i bambini, gli ammalati, gli anziani.