Intervento di Renato Traquandi, ad Arezzo presso ASSOCIAZIONE CULTURALE DANTE ALIGHIERI
DANTE E MAZZINI: la Patria prima della Patria
Signore e Signori,
quest’anno, 2015,
viene celebrata la ricorrenza del 750/mo anniversario della nascita di Dante Alighieri.
L’occasione non può passare inosservata, ed è per questo che - in ogni parte del mondo culturale moderno - (che non si limita – soltanto - agli usi e costumi, definiti dai più, spicciativamente, all’”occidentale”, ma che si allarga, in ogni angolo del pianeta, ormai – veramente – divenuto piccolo e gracile, come lo stanno a dimostrare gli accadimenti recenti di odio e prevaricazione tra razze e religioni) …
“ La Commedia” che Petrarca per primo chiamò “divina”, sono oggetto di approfonditi studi, analisi, commenti. la figura e le opere, e non solo la più eccelsa e famosa di tutte del “sommo poeta”.
La nostra Associazione, che recentemente ha celebrato i quaranta anni di attività, durante i quali molte sono state le iniziative in cui si è attivata, nei settori espressamente previsti dallo statuto fin dalla sua fondazione, da quello della promozione culturale alla beneficenza, dal settore dell’associazionismo sanitario alla organizzazione di eventi dal contenuto etico o di approfondimento scientifico doverosamente si allinea alla celebrazione di questa importante ricorrenza.
Abbiamo il dovere, se non anche l’obbligo, di doverlo fare, avendo a Dante Alighieri voluto intestare il nostro sodalizio, ed è con gradito compiacimento che mi accingo ad intrattenervi su di un tema il cui titolo potrebbe sembrare, al mondo accademico in particolare, un gesto di audacia, quanto meno, se non addirittura il tentativo di voler mischiare due ingredienti che possono sembrare diversi, ma che non lo sono affatto, come cercherò di documentarvi.
Non sono io ad affermarlo ma, per quanto ne so, due personaggi, vissuti il secolo scorso che ne sapevano molto più di me.
Il primo è Giuseppe Tramarollo, nato a Padova nel 1910 e morto a Pavia nel 1985.
Tramarollo è stato professore di liceo a Vicenza, Brescia e poi a Milano, con una parentesi nella Svizzera Italiana. Dal 1961 all’anno della morte è stato presidente nazionale della Associazione Mazziniana Italiana, della quale mi onoro di far parte.
Uno di Pacciardi, tenuto al Liceo cantonale di Lugano, nel 1933, durante il suo esilio in Svizzera, e l’altro di Tramarollo, nel 1965, in una aula magna di una università milanese, come “lectio magistralis”, in occasione del 700/mo anniversario, nel 1965.L’accostamento che io voglio fare fra Dante e Mazzini ricalca due specifici interventi aventi lo stesso titolo;
Tutti e due gli oratori, mazziniani militanti nella vita di tutti i giorni, da politici impegnati sul fronte laico e democratico non temono di far sembrare un gesto di “audacia intellettuale” accostando questi due personaggi della storia e della letteratura nazionale; l’uomo del medio evo e l’alfiere della civiltà contemporanea italiana e financo europea.
Potrebbero, invero, sembrare lontani tra loro, e non solo nel tempo, ma essendo entrambi due tra i più importanti elementi della sapienza italica meritano di essere, messi a confronto, per i non pochi tratti che li accomunano.
Ce li fanno sentire, sempre e comunque, attuali, vicino assai alle nostre problematiche, del vivere di ogni giorno.
Lo stesso Mazzini, nel suo lungo esilio londinese, nello svolgimento della sua attività pedagogica, nel commentare Dante e le sue opere, ai giovani studenti, accumunò le due vicende personali, descrivendo mirabilmente i commenti danteschi di Ugo Foscolo, risalendo dagli scritti delle opere minori alla “cattedrale inimitabile” ( Giuseppe Tramarollo) della Divina Commedia.
Nella relazione del prof. Tramarollo viene magistralmente evidenziato come le condizioni politiche del nostro Paese siano pressochè simili, pur a tanta distanza di tempo: le tante entità dominanti nello stivale, in rissa eterna ai tempi di Dante, e gli altrettanti staterelli, dominati dai restauratori antinapoleonici dell’ottocento, nell’epoca mazziniana.
E’ una maledizione, questa, della storia italiana che si rinnova nei secoli, alla quale anche Alessandro Manzoni, con il suo mirabile “Adelchi” fa profondo riferimento… ricordate quel lacerante inno di richiamo al popolo… sperduto e quell’accorato appello che ne segue.
“Essere figli di questa pena – scrive Mazzini – è pari al non avere ne padre ne madre, ne amico, ne amante. Il padrone dei nostri destini paresse voler dire: io vi toglierò il padre, la madre, la Patria, l’amico, l’amante tutto perché Voi possiate ramingare come Caino, nell’universo, col chiodo della disperazione nel petto”.
Dante e Mazzini, assetati di amore, di libertà e rispetto, si espressero, con le loro opere, sempre e comunque, ispirati da questi pensieri comuni; mai pervasi da odio e, nemmeno, dal limbo della rassegnazione.
Nessuno al pari di loro due, frattanto, ha mai innalzato così tanto la donna e la sua missione su questa terra, “scegliendola a vegliare, a proteggere, a sollevare nel cielo le abili mosse dell’uomo, verso Dio e la Natura” ( dalla relazione di Tramarollo).
Dante, sembra, non avere mai avuto occasione di parlare con Beatrice, eppure è lei che lo guida dalla selva “selvaggia” alla luce liberatrice. Secondo molti studiosi dantisti, questa è una vera e propria trasfigurazione dell’intimo dolore provato nell’animo del divino poeta. Quanto Dante ne soffrisse e ne fosse quasi impazzito si può leggere nella biografia che di lui ci ha lasciato Giovanni Boccaccio. Dante, forse, si illuse, che il prescelto di Beatrice fosse comandato, e che “l’eletto” della vita di quella donne fosse lui.
Al contempo, si legge in Mazzini: “l’amore è l’ala dell’anima, a Dio e al bello, al grande, al sublime ( elementi che sono l’impronta di Dio sulla Terra), anche l’amore tormentato, perenne anelito a ideali non raggiunti, e che nella donna amata, anche non corrisposti, vengono sublimati.”
Uno dei tratti principali dei due fu che l’esilio è stato esperienza di entrambi. Il tipo di italiano che Dante e Mazzini incarnano è abbastanza diffuso nella cultura italica: mesto, severo, solitario, di alta moralità, e non arrendevole ai “colpi di sventura”, come ebbe ancora una volta a sottolineare il professor Tramarollo al riguardo.
Tali, dunque, furono, Dante e Mazzini; poche donne accanto, pochi amici veri. Pochi amici ebbe Dante: Cavalcanti, Brunetto Latini e pochi altri; Mazzini ebbe molti seguaci; tanti erano i giovani, in special modo, che credettero in lui; ma amici veri, pochissimi, tra i quali deve essere citato Federico Campanella.
Per entrambi questa lacuna, da non confondersi con la capacità di amore, fece sì che avesse per contraltare l’intera umanità, verso anime e volti senza nome, suscettibili sempre di miglioramento e di perfezione ( dal discorso di Randolfo Pacciardi).
Dante ebbe una triste situazione familiare. Il padre, Alighiero che venne accusato persino di usura, si risposò ed ebbe altri figli. Dante non lo nomina mai, nel poema e altrove.
La madre morì quando era bambino e nella Divina Commedia la fa ricordare indirettamente benchè rispettosamente, una sola volta: “ Benedetta colei che in me s’incinse”. Una fanciullezza arida e senza affetti anche se i fratellastri furono con lui compiacenti.
La crescita del giovane Mazzini è diversa. Il padre era un medico che certamente lo amò, ma non lo capì a fondo. La madre, invece, Maria Drago, ha sempre avuto per “Pippo” una adorazione sconfinata.
Diverso fu anche l’ambiente in cui Dante e Mazzini vissero.Spiritualmente e intellettualmente gli fu sempre vicina. Fu anche la sua più intima confidente; sentì che aveva un figlio straordinario, lo incoraggiò, lo sottrasse, con la parola e con gli scritti, sempre, dai momenti terribili dello sconforto.
Firenze, ai tempi di Dante era un grande villaggio, con circa 30.000 mila abitanti, una città ricca, a vocazione mercantile. Le differenze di classe erano molto accentuate, accanto al patriziato feudale si andava formando un popolo impegnato nel lavoro, esperto nell’arte della lana, una classe di banchieri che intrecciavano relazioni con tutto il mondo conosciuto allora. C’era poi il “popolo” “minuto”, più miserabile … “cagne magre studiose e contee”, come ebbe a citarle lo stesso Dante.
Poco o nulla si sa degli studi di Dante; Mazzini fece invece studi regolari all’Università, prima di medicina, che abbandonò perché non sopportava la vista dei cadaveri nella tavola anatomica, poi di legge. Mazzini, già all’università, creò i primi centri di cospirazione. La vera vocazione del giovane genovese, come quella di Dante, era letteraria, mentre la vera passione, per entrambi, fu passione politica.
Il sentimento profondo, covato da entrambi, restava comunque quello di avere una unica patria; una visione religiosa piena di animosità, anche se Mazzini non ebbe, neanche in sogno, alcun paradiso.
In Dante come in Mazzini era presente una gerarchia di valori: dalla materia alla vita, quindi allo spirito, per arrivare alla coscienza, quindi all’uomo, animale tra gli animali, che è , però, il solo privilegiato dei sacri doni, i quali lo spingono verso il grande architetto dell’universo, origine e, al tempo stesso arrivo, del tribolato cammino verso il progresso e l’agognata perfezione.
Per Mazzini è il popolo il vero ed unico interprete di Dio, mentre per Dante il medesimo procedimento si delinea soltanto con la maturazione individuale, che cresce tramite l’esperienza.
Il viaggio di Dante è compiuto dall’uomo in solitario, magari assistito da un personale Virgilio e da una rimpianta Beatrice, ma entrambi giungono alla medesima conclusione, avvertendo che tra cielo e terra non c’è divario, come non ce n’è tra bisogno e speranza. ( cfr. Pacciardi).
Al tempo di Dante fu il papa Bonifacio VIII a chiamare in Italia il re di Francia, allorquando i Neri, patrizi, si convertirono in guelfi ed i Bianchi, perseguitati, si allearono con i Ghibellini contro Bonifacio. Dante, autodefinitosi “ghibellin fuggiasco” fu, sempre e comunque, dalla parte del popolo, dimostrando con le rime del suo Poema di saper fustigare le città italiane dell’epoca, tutte quante, guelfe o ghibelline che fossero, mettendo in negativo ogni fazione.
Anche Mazzini suscita nella coscienza umana una volontà liberatrice, mettendo nel conto di ciascuno dei suoi contemporanei italici il dovere della battaglia per la resurrezione.
Per Dante e Mazzini, all’unisono, la vita non è solo un fatto biologico, un banchetto per gaudenti o un castigo inflitto all’uomo, per meritare una successiva beatitudine eterna.. la vita è una missione. Diversi secoli prima di Mazzini, Dante aveva scritto: “ fatti non fummo a viver come bruti” e che le creature “ si muovono a diversi porti – per lo gran mare dell’essere e ciascuna con l’istinto a lei dato che la porti”.
Sono stati molti i letterati italiani, e non solo, ad affermare che Giuseppe Mazzini è stato uno dei più convinti interpreti del “bisogno di unità di patria” che Dante aveva in sé. Due su tutti, Giovanni Spadolini e Indro Montanelli.
La patria prima della patria è il concetto esposto da studiuosi del calibro di Marino Biondi, docente di storia e letteratura. Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe sono altri due eminenti storici che hanno nei loro scritti avvertito l’esigenza di accostare i due nomi, cui viene riconosciuto il merito di aver saputo tracciare la catena genetica del passato italico alle rivendicazioni risorgimentali.
Nella esperienza della istruzione ricevuta, Mazzini, concepì “arditamente” ( cfr. Tramarollo) un programma di resurrezione nazionale che coinvolse migliaia di giovani, pronti all’estremo sacrificio, pur di assolvere a questo supremo dovere, citando più volte il sommo poeta fiorentino, vuoi negli episodi biografici, vuoi nelle di lui opere.
Dante visse e operò fra guelfi e ghibellini, bianchi e neri, le fazioni molto spesso feroci nelle battaglie per la supremazia politica, con precise convinzioni, anche se a volte dettate da contingenti situazioni personali, e sempre difese con ardore accorato.
Quando il ghibellinismo giunse a rappresentare il potere aristocratico e feudale, assurgendo a simbolo del patriziato come casta, e la parte guelfa divenne una sorta di corporazione di mestieri, ponendosi a rappresentare di fatto elementi di libertà e di uguaglianza ( occorre ricordare che il periodo di Dante è il Medio Evo, periodo ancora molto buio per tali istanze), valori da sempre “popolari”, Dante fu dalla parte dei guelfi.
Fu sempre Dante il primo a delineare persino i naturali confini della “patria italiana”: “ di là da Pola presso del Carnaro che l’Italia chiude – e i suoi termini bagna”. Di più Dante fu il primo a dare a questa entità, ancora in divenire, una lingua comune e un’anima collettiva.
Anche Dante predisse Roma, come capitale naturale della patria italiana, mettendo l’imperatore Arrigo, allora uomo forte del momento, al vertice della soluzione del problema di identità. Dante, per dirla come affermò il professor Tramarollo, non fu ne apertamente guelfo né tantomeno ghibellino, parteggiando comunque per il popolo solamente, anche se lui stesso si defini “ il ghibellin fuggiasco”.
Per Mazzini il bisogno di libertà, identificato come entità soprannaturale, suscita nella coscienza umana una volontà suprema , il compiuto dovere della battaglia per la missione della resurrezione sociale. Nei versi del suo Poema egli “flagella” ( cfr. Tramarollo) le fazioni e le città dello stivale tutte quante, siano esse di parte guelfa o ghibellina e dice di lui… “ fa parte per se stesso”.
E’ stato Mazzini, sospinto dai medesimi aneliti di Dante, seicento anni più tardi, a contrapporre al disegno di monarchia universale il sogno, ugualmente ardito, di una repubblica universale: l’internazionalismo mazziniano si propone di esaltare la personalità umana per questo scopo.
Dalla Roma dei Cesari e dei Papi, vissuta nel duecento da Dante, sarebbe dovuta succedere, nella visione mazziniana, la “Roma del Popolo”.
L’idea di una nazione italiana, dopo la seconda metà del settecento, con la rivoluzione americana e quella francese, aveva raggiunto la maturità. Creare una Patria agli italiani assumeva in pieno il significato di superare definitivamente il Medio Evo.
Secondo Mazzini “Patria degli italiani” si identifica in Repubblica. Nelle ultime decadi dell’ottocento irrompeva sulle scene il socialismo marxista che il pensatore genovese asserì sempre essere incompatibile con la libertà, la democrazia, il progresso.
Ai lavoratori italiani scrisse lungimiranti pagine, proponendo soluzioni logiche al problema sociale. Mazzini auspicava in economia un mondo nuovo nel quale " capitale e lavoro fossero nelle stesse mani".
In questa grande aspirazione Mazzini si ricongiunge nettamente, in termini più moderni, al grande sogno di Dante della Roma capitale d’Italia, fulcro di una Europa unificata e, magari, più tardi, con una terza Roma, in qualche maniera leader mondiale.
Nel diciannovesimo secolo l’idea dell’Italia unica nazione era ormai matura. Creare una unica patria italiana significava davvero superare definitivamente l’oscurantismo e spingere il popolo “ a forti fatti”: per Mazzini voleva – questo - dire “repubblica”; ai tempi di Dante il concetto restava fuori portata. Mazzini per il popolo, le donne, gli operai, gli artigiani, gli agricoltori, scrisse pagine sincere e toccanti, proponendo soluzioni ai problemi sociali.
Citando il professor Tramarollo è lecito mettere in rilievo come questo mio lavoro, mettere cioè, Mazzini in parallelo a Dante, del quale quest’anno si celebra il settecentocinquantesimo anniversario della nascita, non può sembrare ne assurdo ne azzardato. Certo è che ciascun “genio” è figlio del suo tempo, ed è “genio” soltanto chi si eleva al di sopra del suo, di tempo.
Mazzini, esule, solo, ricercato, scrisse: “… veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e lidi dal vento secco che spira favorendo la dolorosa povertà e sono apparito agli occhi a molti che forse per alcuna fama altra forma mi avevano immaginato nel cospetto dei quali non solamente invilìo ma di minor pregio si fece ogni opera si che è già fatta, come quelle che fosse a fare”.
Dante, scacciato dalla sua città come “barattiere” ( oggi traducibile con i termini di imbroglione e truffatore), ramingo di terra in terra, di corte in corte, imparò “come sa di sale lo pane altrui”, scrisse questi mirabili versi, nella sua commedia, incontrando nel suo viaggio il trisavolo Cacciaguida: “ Se io al vero sono timido amico – temo di perder vita fra coloro – che questo tempo chiameranno amico”.
Entrambi sono anche avversi a qualsiasi compromesso. Quando a Dante venne offerta l’amnistia per tornare a Firenze egli gridò sdegnoso che “per questa via non si torna in patria”. L’altro, Mazzini, soffrì della stessa solitudine, ma rinchiuso nella fortezza di Gaeta mentre i bersaglieri del Regno d’Italia entravano da Porta Pia ha la forza di scrivere: ”Il dolore è santo, ma la disperazione è codarda, per farmi uscire da qui occorre aprire le porte di Roma repubblicana.”.Di loro il professor Tramarollo dice che nè la condanna al rogo inflitta a Dante, né la condanna alla fucilazione per Mazzini, distrasse entrambi dal compimento di quello che tutti e due ritennero il supremo loro compito: accrescere nell’umanità il senso supremo del dovere, in una gerarchia di gradi che va dalla materia, alla vita, alla coscienza.
Dante e Mazzini scavalcano il loro tempo, le date della loro nascita e della loro morte; con l’occhio dell’aquila, nell’inconscia superbia di saper superare secoli, annunciano tutti e due ciò che è di là da venire. Tutti e due, dunque, non è che si possono definire moderni, l’uno uomo del nedioevo e l’altro del periodo letterario romantico; ma contemporanei si, questo sì, in quanto
Tutti e due sono morti soli, lontano dal focolare familiare. Tutti e due sono stati randagi, ed avevano tentato di infondere nelle anime morte degli italiani un eroico soffio di idealismo. Seicento anni di distanza temporale durante i quali, chi a loro si ispirò, lottando duramente contro il materialismo dell’asservimento quiescente, in modo concreto contribuì al futuro benessere italico ( cfr. Tramarollo).
Al professor Tramarollo, insigne studioso che molte generazioni di liceali lombardi e del Canton Ticino aveva contribuito ad istruire, su questo tema mancava una esperienza che, invece, accosta Pacciardi ai due grandi italiani: l’esilio.
Pacciardi, nel 1925, riuscì a fuggire dalle angherie fasciste e a rifugiarsi a Lugano, grazie alla vedova di Cesare Battisti che lo aiutò a espatriare. E Pacciardi nell’affrontare da par suo l’argomento relativo alla comunanza dei destini di Mazzini e Dante, lui mazziniano, soldato, patriota, giornalista e politico, affermò che il diritto di asilo non viene concesso solo alle persone, ma anche alle loro idee.
Egli chiuse il suo intervento con questa citazione: “Dante, del Medio Evo, nella luminosità delle Arti, Giordano Bruno, del Rinascimento, nell’eroismo del concetto di conoscenza , Mazzini nell’era moderna dell’apostolato civile, rappresentano in Italia la concezione eroica della vita; l’azione e la battaglia, il fare contro il non fare, non rassegnarsi mai, anche se il prezzo da pagare è la propria felicità.
lasciato; io resto invero convinto del fatto che, oggi, ci sia ancora qualcuno, che a loro fa riferimento per rendere la loro gloria ancor più salda, non utopica, non astratta, bensì attuale, da prendere ad esempio, soprattutto oggi. Dante e Mazzini sarebbero stati ugualmente immortali per la sapienza che ci hanno
Venerdì 8 maggio 2015
RENATO TRAQUANDI