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Abu I . Walid Muhammad ibn Ahamad Muhammad ibn Rushd,
Eera nato a Cordova, nel 1126.
Come tutti i bimbi nati nella cerchia della nobiltà dei mori spagnoli, anche Averroè ( nome con cui venne affermandosi da adulto) iniziò ad apprendere la scrittura e la lettura con i tradizionali racconti attribuiti a Maometto; proseguì, quindi, con la giurisprudenza e la teologia.
Divenne medico, giurista e filosofo. Scrisse una serie di commenti sulle opere di Aristotele, una serie di libri di medicina ed alcuni trattati di filosofia.
Tra i suoi scritti di filosofia si ritiene importante citare: “L’incoerenza dell’incoerenza”, nel quale difende il pensiero di Aristotele e la filosofia in generale. La tesi del filosofo arabo era basata sul fatto, anzi la convinzione, che la verità può essere raggiunta, sia attraverso la religione rivelata, sia attraverso la filosofia speculativa.
Il punto di forza del pensiero di Averroè si basa sulla convinzione che tra religione e filosofia non vi è alcuna conflittualità, in quanto le eventuali divergenze sono riconducibili solo alle differenze d’interpretazione. Egli sosteneva che le due discipline perseguono due strade, per raggiungere una simile verità: quella religiosa si basa sulla fede, non può essere discussa e non richiede una particolare preparazione per capirla, mentre quella filosofica è riservata solo ad una stretta cerchia di illuminati intellettuali, capaci di approfondire concetti complicati.
A causa di questa rigida interpretazione filosofica, in netto contrasto con le predicazioni dei notabili religiosi arabi spagnoli, fu tenuto sotto stretto controllo fino alla morte, che avvenne a Marrakesh il 10 dicembre del 1198.
Tornato in patri, Pico della Mirandola, intensifica lo studio dell’ebraico e dei testi cabalistici.
Successivamente pensa di organizzare a Roma un convegno di sapienti, riuniti nella caput mundi, per discutere sui diversi argomenti e teorie del sapere.
Nelle vicinanze di Arezzo a causa di una congiura venne arrestao ed incolpato di nefandezze, per l’epoca pagate anche con la morte. Solo l’intervento di alcuni suoi protettori, patrizi fiorentini, estensi e patavini, venne quasi subito rilasciato, riuscendo a raggiungere Perugia.
Dietro a questa vicenda la storia parla di un maldestro tentativo di fermarlo, per mano di certe ombre potenti della chiesa romana.
Affatto domo, Pico inizia a far circolare a Roma, poco prima del Natale del 1486, gli inviti alla “pubblica disputa”, da effettuarsi a partire dal febbraio dell’anno successivo.
Trova le risorse per dare alle stampe un testo, dal titolo enciclopedico, “ Le novecento tesi, ovvero le proposizioni dialettiche, morali, fisiche, matematiche, teologiche, magiche e cabalistiche, dei tanti sapienti ed eruditi conosciuti dell’epoca, siano essi caldei, arabi, ebrei, egizi o latini”.
Nelle intenzioni di Pico della Mirandola il dibattito sarebbe dovuto essere preceduto da un discorso introduttivo, testo che è giunto fino a noi con il titolo: “ Oratio de hominis digitate”.
In Roma, papalina in ogni stra, in ogni piazza, in ogni vicolo, si sollevarono critiche, obiezioni che dettero forma a vere e proprie accuse. Una apposita commissione talare, direttamente nominata da Innocenzo VIII, giudicò alcune delle tesi pubblicate da Pico addirittura eretiche, giudicandone altre inconsistenti se non infondate, financo offensive per la chiesa cattolica.
In soli venti giorni Pico scrisse una “Apologia” cui affidò di dimostrare la validità delle sue tesi, che voleva soltanto porre in disputa, quindi aprire un confronto con gli altri modi d’essere. Fa appena in tempo ad allontanarsi da Roma che Innocenzo VIII ne ordina l’arresto.
A Lione il principe Filippo di Savoia lo fa arrestare; viene ancora una volta mandato libero, grazie all’intervento di un suo mecenate ed estimatore, Lorenzo de Medici.
Nel 1488 Pico della Mirandola si stabilisce a Fiesole. E’ molto turbato, causa la condanna di eresia che la chiesa ha emesso contro di lui.
Volume pregevole, per la lettura e per il contenuto, è “L’Heptaplus”, che pico scrive, nel periodo più intenso dei suoi studi telologici, con l’animo triste di chi sa di essere ingiustamente perseguitato.
Trattasi di un validissimo ed utile commento, in chiave allegorica, quindi privo di accenni alla sacralità, dei versetti della genesi, rivenienti dalla tradizione popolare antica ed agricola.
Del 1492 è l’opera “ De Ente et Uno”. Con questo testo il filosofo, teologo e matematico, inviso e perseguitato dalla chiesa, si propone di conciliare la filosofia di Platone con quella di Aristotele, riuscendo a dimostrare la continuità, insita nei ragionamenti del primo ed in quelli del secondo, anticipando, anche se inconsciamente, tante visioni filosofiche dell’oggi moderno ed illuminista.
Papa Alessandro VI, succeduto a Innocenzo VIII emette il “Breve”, edito con il quale Pico della Mirandola viene scagionato dalle accuse mossegli, così sofferte e pericolose, cui era stato oggetto, costringendo questo importantissimo studioso e poco apprezzato studioso, un senso profondo di solitudine e di sconforto, mitigato solo dagli studi e dalla passione per le antiche dottrine.
I primi giorni di novembre del 1494 Pico inizia ad avvertire forti dolori addominali. Si trova ancora nel convento in cui si è ritirato per meditare e pregare. Il giorno lunedì 17 di quello stesso mese muore in circostanze oscure, tali da far supporre un avvelenamento, che, se realmente avvenuto, innalza ancor di più l’esigenza di ricordarlo, come eroe e martire, fatto uccidere da un potere, non tanto oscuro ed alquanto impaurito.